Come è nato questo
libro? E’
nato con me, nel 1960, in borgata.
Una borgata cruda, aspra, popolata da
comunisti, ex operai della vicina fabbrica
dismessa, muratori, asfaltisti, marmisti,
carpentieri, carabinieri, saldatori
ossiacetilenici. Gente pratica, concreta.
Nelle sere d’inverno gli uomini tornavano a
casa dopo essersi sbronzati al Circolo dei
Lavoratori, bussavano agli usci delle loro
povere case proletarie e alle mogli che
chiedevano “Chi è?”, rispondevano “’Sto
cazzo!”.
Dall’unica stanza da letto dove dormivamo in
sette, io li udivo e mi raggomitolavo
perplesso nel mio lettino, dove davanti agli
occhi avevo i piedi di mio fratello grande.
“Perché non dicono “Io” come ho sentito dire
alla Tivvù dei Ragazzi?”, mi chiedevo.
Il posto dove vivevi ti sembrava strano?
La faccio breve. Mi sa che lo strano ero io.
I miei genitori capirono ben presto che
c’era qualcosa che non andava.
Mi portarono dal Dott. Dante B., il nostro
medico condotto e infatti la diagnosi fu
immediata quanto spietata: ero nato
sensibile.
Mia madre piangeva. Papà cercava di
rincuorarla.
“Si è sbagliato”, ripeteva. “Ha detto una
parola gentile, ma non la voleva dire. Gli è
scappata! Vedrai che adesso anche lui da
bravo bambino imparerà come gli altri a
salire sui cipressi del viale per sfasciare
i nidi dei cardellini con le uova dentro.
Non disperare!”.
Ma poi col tempo sei guarito?
Manco per niente. Più crescevo e più
diventavo sensibile.
I miei ce la mettevano tutta per nascondere
questo mio difetto che, se fosse stato
scoperto, in borgata mi avrebbe marchiato a
fuoco per l’intera esistenza.
I giorni passavano, crescevo ma non cambiava
nulla.
Non uccidevo le lucertole, non sparavo
cartoccetti con lo spillo in punta dalla
cerbottana, non sapevo costruire pericolose
mazzafionde con le forcelle dei rami di pino
e gli elastici “a mattonella”, come usavano
chiamarli i miei coetanei.
Invece cosa ti piaceva?
Mi piacevano le parole e le storie che con
esse si potevano costruire. Mi piaceva come
tutto quello che nasceva dalla fantasia, un
attimo prima era nuvola, ma poi con le
parole diventava una pioggia leggera che ti
cadeva addosso e invece di bagnarti ti
faceva sentire felice.
Ma dove le trovavi queste parole? Nella
borgata aspra e impietosa?
Nemmeno per sogno, di belle parole intorno a
me e per un raggio di diversi chilometri non
se ne trovavano. Aggiungici poi che per non
dare nell’occhio di libri in casa non ne
avevamo, queste potevano arrivarmi solo in
un modo: con le canzoni alla radio.
Avevamo allora un preziosissimo apparecchio
a valvole che tenevamo adagiato su un
centrino di cotone bianco inamidato, fatto
da mia madre all’uncinetto, in un vano a
giorno tutto foderato di specchietti
verticali di una piccola credenza ereditata
da certi vicini che si erano trasferiti
nelle Marche.
Mia madre confezionava un centrino per ogni
cosa che entrava in casa e rimaneva in
posizione statica per più di tre minuti.
Se stavo studiando e avevo i gomiti poggiati
sul tavolo, mi sollevava i gomiti e ci
infilava un centrino sotto.
Cosa ti piaceva ascoltare?
Le canzoni italiane. Quelle inglesi non le
capivo. Non ho mai capito come alla gente
possano piacere le canzoni in lingua inglese
se non conoscono questa lingua e quindi non
possono comprenderne il significato.
Il mio idolo era Mogol che allora scriveva
testi meravigliosi per l’ Equipe 84 e per
Lucio Battisti.
“Oh! Come mi piacerebbe diventare lui, da
grande. Come vorrei essere Mogol…”, pensavo
sempre.
Ma un giorno d’estate arrivai a casa
assetato e, bevendo direttamente dal
rubinetto che era in cucina, mi venne
spontaneo esclamare:
«Acqua azzurra, acqua chiara, con le mani
posso finalmente bere…»
Mia madre mi vide e disse:
«Quante volte ti ho detto di usare il
bicchiere, scimunito!»
E fu per questo che non diventai Mogol.
E poi cosa accadde?
Zitto. Sono stato zitto per anni. Come mi
veniva di pensare ad una cosa bella cercavo
di distrarmi, di distogliere la mente. Mi
sentivo un diverso e ne provavo vergogna.
Mi sono nascosto, ma nel tempo mi è anche
capitato di rischiare ancora di essere
scoperto.
E come?
Una volta, sempre in estate, me ne stavo
sulla costa, davanti al mare con lo sguardo
fisso verso l’orizzonte.
“Come può uno scoglio arginare il mare?”,
esclamai a bassa voce, ma mio fratello
grande sentì e mi disse:
“Muoviti coglione, vammi a prendere un
Calippo alla menta al bar del Corsaro!”.
Io andai. E pure quella volta non diventai
Mogol.
In un’altra occasione stavo guidando a fari
spenti nella notte per capire se poi è tanto
difficile morire, però mi fermò la Stradale
e il maresciallo Mulas in caserma mi fece un
cazziatone che ancora me lo ricordo.
Pure allora non diventai Mogol.
Ne potrei raccontare di cose, se ciò non mi
provocasse dolore…
Sempre quando ero ragazzo, un giorno me ne
stavo in finestra a rimirare il giardino
delle sorelle zitelle che avevamo davanti
casa, quelle che ci bucavano il pallone se
ci finiva dentro, quando mi colse un
pensiero delicato.
“I giardini di Marzo si vestono di nuovi
colori…”, dissi felice a mio padre che
passava da lì.
E lui: – Vedi che c’è da raccogliere l’erba
per i conigli, ‘ntontarutu! – (che significa
scemo in calabrese).
Manco in quell’occasione diventai Mogol. .
E allora?
Allora qualche tempo dopo Mogol scrisse, con
le mie stesse parole, canzoni che hanno
avuto il successo che tutti conosciamo.
Capito? Io sono stato considerato uno
scimunito e lui invece è diventato il più
grande e importante autore italiano di testi
di canzoni di tutti i tempi.
Ho pensato che stiamo sempre a guardare e a
fare i conti col punto di arrivo. Con il
risultato. Il traguardo.
Invece puoi cadere sulla roccia e morire,
oppure sulla terra fertile e fiorire.
Il risultato è molto diverso, ma tu eri pur
sempre un piccolo seme.
Allora questo libro? Non dovrebbe
esistere, se è come dici.
E invece eccolo. I primi giorni del 2021 lo
porteranno. Un bell’inizio di anno, un bell’augurio.
E’ un libro di buoni sentimenti, ne abbiamo
tutti bisogno.
Io avevo bisogno di scrivere, ho sempre
desiderato farlo.
Penso di poter affermare di avere iniziato a
scrivere, ancora prima di imparare i segni
dell’alfabeto.
E’ impossibile. Come facevi?
Annotavo dentro di me le cose che avrei
voluto scrivere. Le registravo nella mia
memoria .
Ho dei ricordi così antichi eppure così
nitidi e ricchi di minuscoli particolari che
io stesso a volte ne rimango stupito.
Perché allora il tuo libro arriva solo
oggi?
Una volta da giovane ci ho provato, a
pubblicare un mio libro dico, ma mi dissero
che non avevo la necessaria esperienza, che
dovevo aspettare di diventare vecchio e
saggio per raccontare delle storie che
potessero interessare.
Ogni tanto mi chiedevo se quel giorno fosse
finalmente arrivato.
Niente.
C’era sempre qualcuno più anziano di me che
aveva fatti più interessanti da narrare. Un
vero accanimento nei miei confronti,
credimi. E intanto Mogol diventava sempre
più famoso.
E poi cosa hai fatto?
Che potevo fare? Ho aspettato.
Poi un giorno mi sono detto: “Qui a voler
dar retta a tutti finisce che divento troppo
vecchio e davanti ad un mio libro tutti
penseranno: “ Si, vabbè, salutatelo finché
riconosce. Avrà scritto le sue storie sotto
l’effetto allucinogeno delle pillole per
l’ipertensione arteriosa”.
E allora?
Ho iniziato a spedire il mio libro alle case
editrici. Da vero sfacciato, senza scrupoli.
Alcune di loro non lo hanno accolto
favorevolmente.
“E’ un bel testo, ma è scritto con un
linguaggio di altri tempi. Ci vorrebbe
qualcosa di più attuale, che sia lo specchio
dei nostri giorni. Insomma… qualcosa di più
giovane!”, mi dicevano.
Capito? Quando sei giovane ed inesperto ti
vogliono vecchio e saggio. Tu non ti fai
pregare. diventi vecchio in un battibaleno
che quasi manco te ne accorgi ed invece no,
“cercavano uno giovane”, loro!
Poi le cose sono cambiate…
Si. Un giorno di luglio scorso sono stato
chiamato al telefono dalla responsabile
editoriale della casa editrice Armando
Curcio.
Mi ha detto: E’ un bel testo, è scritto con
un linguaggio di altri tempi. E’ tenero,
lievemente malinconico, evocativo. E’
proprio quello che ci vuole per questi
giorni scuri che stiamo attraversando.
Se vuole, il suo libro lo stampiamo noi. Le
facciamo un contratto per cinque anni”.
Ho risposto che a me andava bene.
Cosa ci troveremo?
Tutto quello che non avevo mai avuto il
coraggio di raccontare.
Dai, siamo tutti un po’ così!
Ci blocca il pudore, il timore di non essere
compresi. L’idea che quello che abbiamo
dentro sia troppo piccolo, troppo misero,
che non valga la pena di essere condiviso.
Che sia troppo comune.
Ed invece è unico, pur se in qualche modo
appartiene alla memoria di ognuno di noi ed
è allo stesso tempo universale.
Quindi, la “cruda borgata” come l’hai
definita tu, non è riuscita a bloccarti?
Direi di no. Anzi, al contrario mi ha
regalato gli strumenti per arrivare fin qui.
Quel microcosmo formato da mangiapreti
anarchici e senza Dio, portava invece nel
cuore il vero Dio.
Ed era di solidarietà, di aiuto e di
condivisione. Poche parole, spesso mal
dette, ma tanta sostanza. Un esempio per me.
Vivere in quella meraviglia mi ha fatto
bene. Nel libro ci sono molti personaggi
della mia infanzia. Altri non ho potuto
metterli per questioni di spazio, ma li
porto dentro e spero di parlare di loro in
un prossimo libro.
Credo che sia stato il mio cuore ad essere
diventato borgata.
Ho avuto una nascita fortunata, in posto
minuscolo dove puoi essere felice per una
fila di formiche in un campetto di terra
arsa. Il posto delle piccole cose.
Ma Mogol ha saputo che volevi essere lui?
Si. Lo ha saputo.
In qualche modo sono riuscito a fargli
arrivare il libro. Dopo una settimana mi ha
scritto.
Poche parole:
“Ho letto Volevo essere Mogol e mi sono
fatto una risata!
Ridere fa bene alla salute.
Questo scritto è fantastico!
Mogol
Ho pianto di gioia.
Come definiresti la tua scrittura?
A me piace scrivere le immagini. Sarà per il
fatto che ho sempre amato scrivere e
scattare fotografie e dentro di me queste
due passioni si danno la mano, interagiscono
e si combinano tra loro.
Scrivere è più difficile che fotografare, ma
la scrittura ti rende libero.
In che modo?
Quando scatti una fotografia scegli con
quale focale riprendere la scena che vuoi
descrivere. Con una focale corta, un
obiettivo grandangolare dico, nell’immagine
compariranno più elementi mediamente
distanti dall’occhio che li vedrà. Al
contrario, con una focale lunga, un
teleobiettivo, ci si concentra sui
particolari. Il teleobiettivo avvicina e
ingrandisce.
Con la scrittura è un continuo carrellare
avanti e indietro tra ciò che è vicino e ciò
che è distante. Tra ciò che è piccolo
piccolo e ciò che invece è gigantesco. Non è
una libertà?
Posso partire dall’oggi, da ciò che è adesso
e arrivare lontano, fin dentro alla tana
della lucertola nel muro di tufo della casa
dove sono nato. Posso restare qui, con te, e
arrivare alle bucce dei semi sputati sul
pavimento del Circolo dei Lavoratori di
quando avevo dieci anni.
Se non fossi tu ad averlo scritto, lo
leggeresti il tuo libro?
Beh, si. Lo leggerei certamente. Ma con
calma, senza correre. Lo farei durare un
po’, come si fa con le cose che vuoi che non
finiscano.
E se lo dovessi presentare in due parole
a chi non lo conosce?
Due parole sono davvero poche.
Se ne avessi a disposizione qualcuna di più
mi piacerebbe dire di lui quello che Evaldo
Violo, per oltre trent’anni direttore
editoriale della BUR, la Biblioteca
Universale Rizzoli ha scritto a proposito di
“Volevo essere Mogol”:
“Nostalgico ma leggero, malinconico ma
lieve, con un sorriso che aleggia.”
Ecco, penso che lo racconterei cosi.
Sarà il libro adatto da regalare Natale
allora?
Si, sarà il libro di Natale che però si
potrà leggere a carnevale. L’uscita nelle
librerie è prevista infatti nei primissimi
giorni di febbraio. Al momento si può
regalare la promessa di un libro,
ordinandolo on-line nello store della Curcio,
su Amazon e in altri siti.
Ovviamente si può preordinare anche nel
negozio di libri sotto casa, che poi è la
cosa che mi piace di più.
Per ogni libreria che chiude perché non ha
clienti, apre una sala di slot machine. Non
ce lo meritiamo, dobbiamo volerci più bene.
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